articoli del nostro studio

02 aprile 2024

Giornata Mondiale della Consapevolezza sull'Autismo : "DIAMO I NUMERI" (e un...

 Inizio '900: l'autismo "non esiste", o "meglio" (si fa per dire) era considerato come un sintomo di una particolare fase della psicosi schizofrenica. Il contesto storico e culturale è quello delle prime grandi tradizioni psichiatriche e psicoanalitiche.  Anni '40 del secolo scorso: Kanner, psichiatra austriaco, naturalizzato statunitense, descrive per la prima volta, su base osservazionale, l'autismo infantile. È una svolta storica e culturale. L'autismo non viene più concepito come un "sintomo" all'interno di un quadro clinico psicotico, ma viene concepito come una condizione a sé stante, connotata da caratteristiche specifiche: ripetitività e ossessività, tendenza all'isolamento; isolate e peculiari capacità. Sicuramente a leggerlo oggi è un lessico superato e offre una visione parziale e limitata ma all'epoca fu un bel salto culturale!  Più o meno nello stesso periodo, ma in un'altra parte del mondo (e questo ha fatto un'enorme differenza), Hans Asperger, pediatra austriaco,  osservò alcuni bambini il cui comportamento ricordava quello descritto dalle osservazioni di Kanner, presentando però caratteristiche "più sfumate": propensione alla socialità ma con una certa immaturità e ingenuità, con inevitabile goffaggine  sociale; amore per la routine; spesso spiccata intelligenza; linguaggio e modi pedanti; difficoltà nella reciprocità e nell'empatia. Nasce così la "sindrome di Asperger", una forma di autismo più sfumata. Il lessico è sempre quello che è ma siamo sempre negli anni '40 del '900... Asperger e Kanner, inconsapevoli l'uno del lavoro dell'altri, separati dell'oceano, da migliaia di chilometri e da contesti assolutamente imparagonabili tra loro (in Europa imperversava la guerra, e l'Austria era nel cuore dell'impero nazista) riuscirono a diffondere le loro osservazioni e teorie in modo completamente diverso. Le teorie di Kanner si diffusero in modo molto rapido, andando a connotare profondamente l'idea di autismo, sul piano delle caratteristiche cliniche e dei criteri diagnostici. Le teorie di Asperger, dato il contesto e il momento in cui si trovò ad operare, rimasero invece alquanto sconosciute... Nonostante recentemente Asperger si sia trovato travolto in un tardivo ricorso storico di revisionismo critico post mortem e, accusato di collaborazionismo nazista, il pediatra austriaco ha dato un grande contributo a ciò che ancora oggi sappiamo dell'autismo e, soprattutto, della sua grandissima eterogeneità e di quanto le sue caratteristiche connotino profondamente e in modo unico la persona.  "Se conosci una persona autistica, conosci solo una persona autistica". Questa frase, che alcune fonti gli attribuiscono, rende bene l'idea di quanto avesse inteso e dell'invito a non appiattire e generalizzare, quando si tratta di persone. Non male data l'epoca. Eppure, nessuno mise in relazione il comportamento osservato da Kanner con quanto osservato da Asperger. Dovette trascorrere molto tempo e dovettero avvicendarsi alcune generazioni di studiosi e studiose... Mentre il tempo passava però, le cose non erano ferme. E quando mai lo sono...per fortuna! La scienza progrediva, e alcune idee sulle cause dell'autismo e sulle caratteristiche autistiche vennero, gradualmente e finalmente superate: così fu per la teoria della "madre frigorifero" e per le teorie patogenetiche sul legame tra autismo e psicosi. Lentamente e poi sempre più velocemente invece, si facevano strada le conoscenze sui fondamenti genetici dell'autismo. Eravamo lontani dai 900 geni candidati oggi sotto i nostri riflettori, ma eravamo già su una strada più radicata in quelle che sarebbero diventate le evidenze neuroscientifiche del neurosviluppo....Ok, ok....e nel frattempo Kanner e Asperger si erano "incontrati"? (Metaforicamente parlando si intende....) Anni '80-90: ci siamo!!!!Uta Frith, Lorna Wing, e poi Gillberg (e altri ancora....) "scoprono", contestualmente al loro lavoro clinico di osservazione e terapia, ragazzi e adulti con caratteristiche simili a quelle descritte da Asperger negli anni '40, e BOOM!!!! Ecco che la sindrome di Asperger entra in scena. E, nel 1994, entra nel DSM (Manuale Statistico e Diagnostico dei Disturbi Mentali) all'interno dei Disturbi Pervasivi dello Sviluppo. Il ritardo clamoroso però ha lasciato dei segni.... L'eterogeneità dell'autismo e una conoscenza fondata sui criteri clinici e diagnostici di Kanner, fecero sì che molto, moltissimi autistici, con condizioni "sfumate" non venissero intercettate. Intere "lost generation". E sappiamo quanto la mancanza di consapevolezza possa fare danni e incida negativamente sulla salute mentale... Oggi siamo "più bravi" a cogliere l'estrema eterogeneità dell'autismo, ma dobbiamo ancora e ancora e ancora affinare i nostri strumenti e limare e superare i nostri pregiudizi... Eh ma non è mica finita qui!!!! 2013: Ci sono troppe "etichette" per definire i "sotto-tipi" di autismo! Così non funziona! Nel tentativo di preservare la tenuta e l'accuratezza delle diagnosi nell'arco di vita e di superare il limite della diagnosi categoriale, vengono ridefiniti i criteri diagnostici e di definizione. Nessuna sottocategoria, un unico Spettro Autistico, all'interno del quale usare gli specificatori per individualizzare la diagnosi, al fine di superare il limite dell'etichetta e cogliere quanti più aspetti della specifica persona e della sua condizione. Un unico termine: "Disturbo dello Spettro Autistico ". 2022: la revisione del DSM (5 -.TR), mantiene il cambiamento instaurato nel 2013. E la sindrome di Asperger? Non ha fatto in tempo a entrare dalla porta che è uscita dalla finestra? No. È stata ridefinita, all'interno dell'unico costrutto di "Disturbo dello Spettro Autistico", come: "Autismo di livello 1 senza compromissione del linguaggio e dell'intelligenza associata". La comunità scientifica e le stesse persone autistiche non sono concordi sul beneficio di questo cambiamento, tutt'ora discusso e in corso di costante revisione critica. Dal 2010, più o meno...il Neurodiversity Movement, mosso dalle idee di Judy Singer e sulla scia del cambiamento scientifico e culturale maturato all'interno dell'OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), sostiene una revisione del linguaggio scientifico a favore di un lessico aggiornato e meno medicalizzato e supporta il coinvolgimento attivo degli autistici nelle politiche e negli interventi a loro dedicati. Questi processi, che mettono al primo posto, al centro, la persona (“Identity first”) e non la sua “diagnosi”, hanno avuto e hanno un ruolo importantissimo nella revisione critica del lessico e nell’ampliamento della visione che abbiamo dell’autismo. Ad oggi, anche grazie all’influsso delle evidenze neuroscientifiche, l’autismo è definibile come una neurodiversità, un processo di neurosviluppo, divergente rispetto alla norma cosiddetta “tipica”, ma non necessariamente o primariamente concepibile come un insieme di caratteristiche o di processi di per sé “clinici” o “patologici”. Uno “spettro” o meglio un insieme non lineare di caratteristiche differenti nell’ambito dei processi di elaborazione delle informazioni, che vanno a connotare in modo specifico lo stile socio-relazionale, emotivo, esecutivo e sensoriale della persona. Diamo qualche altro numero? Recenti stime del CDC, orientano per una prevalenza di 1:54 autistici tra i bambini di 8 anni di età. Se consideriamo le cosiddette forme sfumate (autismo di livello 1; sindrome di Asperger) i numeri cambiano, suggerendo incidenza e prevalenza più rilevanti. Ma ora viene il bello (?!)… Il rapporto maschi – femmine rispetto all’incidenza dell’autismo è sempre stato sbilanciato a favore dei maschi. Attualmente, alcune stime suggeriscono un rapporto di 3:1 (Loomes et al., 2017). Questo dato mostra una tendenza al cambiamento negli ultimi anni, da quando cioè siamo diventati “più bravi” a individuare l’autismo di livello 1 nelle donne, dato che esso si manifesta in modo molto più sottili, diversi, rispetto ai maschi. Al di là di caratteristiche di tipo biologico, che rappresentano acclarati fattori di maggiore vulnerabilità per l’autismo nei maschi, c’è, di nuovo, una generazione perduta di donne autistiche, sfuggite a “radar” non ancora adeguatamente sensibili, e colpite da tutti gli effetti negativi secondari a un mancato riconoscimento di caratteristiche ed esigenze specifiche… Oggi la divulgazione di notizie e informazioni sull’autismo è molto più accessibile, grazie anche al coinvolgimento attivo non solo dei clinici e di tutti gli specialisti che lavorano nel campo, ma delle stesse persone autistiche e delle loro famiglie (spesso unite in organismi associativi) impegnate in un corretto fine divulgativo di informazioni e processi adeguati di supporto alla consapevolezza. Le evidenze scientifiche ci aiutano a muoverci con cura e rispetto all’interno di un processo molto complesso, quale è quello del neurosviluppo e della neurodivergenza, individuandone gli aspetti clinici quanto quelli relativi a uno sviluppo fisiologicamente neurodivergente, che naturalmente merita tutto il supporto possibile per evitare frizioni infruttuose con un mondo ancora troppo, troppo, troppo, neurotipicamente normato.  L’idea “vincente” è provare a supportare tutte le persone alla maggiore consapevolezza possibile di sé stessi, per essere attivamente i padroni della loro vita e del loro mondo. Naturalmente non solo il 2 Aprile, ma tutti i giorni, di tutti gli anni, di tutta la vita! Dott.ssa Maria Marino, Studio Napoletano Psicologia Cognitiva - Napoli 

03 ottobre 2023

Ma perché, oggi, tutti vanno dallo psicologo? - Dott.ssa Anna Sicolo,...

Spesso viene posta in maniera più o meno provocatoria questa riflessione, in diverse formule e declinazioni. La tendenza attuale punta a far emergere la condizione di disagio e a sottolineare l’importanza di “occuparsi” del proprio benessere mentale.  La sofferenza emotiva reattiva ad un evento critico o l’inquietudine sopita che accompagna l’individuo, non è una condizione a cui le persone devono abituarsi. Fondamentale prendere atto che il proprio stato di salute psichica influenza fortemente le dimensioni di vita di ciascuno, la famiglia, le relazioni amicali e sociali, il contesto di studio o di lavoro. Una serie di stereotipi legati al contesto di ascolto psicologico, sono ad oggi, (ancora di più con le nuove generazioni) desueti. Questo però, in una dimensione provocatoria, può generare un equivoco di fondo e una lettura superficiale di questa sana tendenza. Quante volte sentiamo dire “Prima non si facevano tragedie, le difficoltà si affrontavano”? In realtà, nel nostro lavoro, la liason tra sofferenza attuale di un individuo e i traumi relazionali avvenuti nel passato è più che evidente, e la ricerca sui traumi transgenerazionali conferma quanto le dinamiche psicologiche delle generazioni precedenti abbiano un forte incidenza sulla condizione di salute delle generazioni future. Il trauma transgenerazionale è il trasferimento della condizione traumatica alle generazioni successive (figli e nipoti), che declineranno questa sofferenza in diverse forme di disagio, a partire dalla propria peculiare narrazione e costituzione personale. Senza scomodare l’epigenetica, i corposi studi di correlazione con il PTDS ed il concetto di influenza ambientale nell’espressione genetica, possiamo fare un volo pindarico e riflettere su quanto il post-bellico, oppure lo scenario devastante successivo alla bomba atomica in Giappone abbia influenzato le opere di animazione di produzione giapponese (anime), poi proposte al mondo infantile come cartoni animati di particolare successo. Temi quali guerre, scenari apocalittici, scontri epocali, oppure la ricerca disperata dei propri cari, il lutto, il sopruso, l’abbandono e l’orfanilità hanno costituito la trama delle storie e la costruzione di diversi personaggi (Goldrake, Mazinga, Candy Candy, Conan etc). Questi traumi erano probabilmente stati vissuti dagli autori che hanno trasferito quella dimensione nella creazione artistica. Ma perché, quindi, oggi tutti vanno dallo psicologo? Oggi si affronta questo tempo e la sua pressione, sfide come la proiezione di sé in più mondi o l’esposizione coatta della propria immagine e della narrazione di sé, rivoluzione digitale in cui siamo stati proiettati senza guida…ma non solo: è bizzarro pensare a quanto questa generazione abbia ancora da elaborare. Fino a qualche decennio fa erano legittimate condizioni di vita disfunzionali quali il matrimonio riparatore, il delitto d’onore, la negazione dell’identità di genere oppure alcune pratiche educative traumatiche. Questi traumi, come un’onda lunga, hanno provocato condizioni di malessere e profondo disagio, che ancora oggi si riverberano negli schemi patogeni relazionali e familiari. Possiamo oggi, finalmente, occuparci più liberamente del nostro benessere, riconoscendo questo cambiamento come passo decisivo verso la salute individuale e collettiva.  

05 giugno 2023

Benessere mentale: Italia ultima in Europa!

Dott. Roberto Esposito, Studio Napoletano Psicologia Cognitiva   Da un’indagine sulla salute mentale e sul benessere psichico condotta su un campione di 30.600 persone di età compresa tra i 18 e i 74 anni in 16 Paesi, risulta che l’Italia (al pari del Giappone) è la nazione con la più bassa percentuale di persone che avvertono uno stato di pieno benessere mentale. Le donne e i giovani sono i soggetti più a rischio. Vi è, però, una buona notizia. Emerge una controtendenza rispetto allo scorso anno: diminuisce il tabù sull'argomento e cresce la propensione a prendersi cura della propria salute mentale.   Per poter valutare lo stato di benessere mentale, Ipsos e il gruppo Axa che hanno condotto la ricerca, hanno elaborato il “Mind Health Index”, indice che mira a identificare potenziali situazioni critiche e problemi, al fine di fornire indicazioni sulle azioni possibili da mettere in atto cambiando abitudini e stili di vita per migliorare il proprio benessere. Quattro i profili di salute e benessere mentale definiti dalla ricerca: 1) coloro che mostrano pieno benessere sociale, emotivo e psicologico; 2) coloro che mostrano benessere solo in alcune aree; 3) coloro che non si sentono al pieno delle proprie capacità e manifestano assenza di un benessere positivo e 4) coloro che riportano la totale assenza di aree di benessere.   Come accennavamo all’inizio dell’articolo, l'Italia è il Paese la cui popolazione è più colpita: solo il 18% del campione dichiara uno stato di pieno benessere, un dato in calo rispetto allo scorso anno (20%).  Abbiamo le stesse percentuali del Giappone che, come noi, occupa l’ultima posizione in questa classifica. Più nello specifico osserviamo che lo stress è il disturbo mentale più diffuso a livello mondiale, in Italia è avvertito dal 56% del campione (in aumento dell’ 8% rispetto al 2022). Purtroppo siamo “primi” in Europa anche per quanto riguarda il “sentirsi soli” con il 48% della popolazione. Incidono sullo stato di salute mentale anche l'impatto negativo della guerra, avvertito in Italia dal 52% del campione e l'impatto degli effetti negativi del cambiamento climatico (43%, terzi in Europa). Le donne sonno quelle che ne soffrono di più. Il disagio mentale è inversamente proporzionale all'età e i giovani risultano i soggetti più a rischio. Pesano l’incertezza sul futuro, la solitudine e l’immagine corporea, ma anche una maggiore sensibilità alla tematica del cambiamento climatico. L'indagine indaga anche il legame tra il benessere mentale generale e il benessere percepito sul luogo di lavoro. Solo il 15% del campione dichiara uno stato mentale altamente produttivo.   Come anticipavamo all’inizio dell’articolo vi è anche una buona notizia: a differenza dell’anno scorso  diminuisce lo stigma sull'argomento e cresce la propensione a prendersi cura della propria salute mentale. Oltre il 60% degli italiani si rivolge a medici e specialisti per la diagnosi delle malattie mentali, mentre l’anno scorso eravamo il primo paese europeo per numero di persone che avevano scelto la strada dell'autodiagnosi. In conclusione, seppur la strada per una efficace prevenzione e tutela del benessere mentale in Italia sia ancora lunga, la nota positiva è un aumento significativo nel prendersi cura di sé stessi e di rivolgersi a specialisti, diminuendo di molto l’autodiagnosi.

01 maggio 2023

Progetto “Aut-Off-icina: laboratori di gruppo basati sul gioco per le...

"A che gioco stai giocando?"   Dai nostri "Diari di lavoro esperienziale": il progetto “Aut-Off-icina” nasce da una riflessione sulle caratteristiche ed i bisogni specifici di persone neurodivergenti. Dal confronto tra colleghi che lavorano con ragazzi neurodivergenti e gli stessi ragazzi, è emersa una domanda cardine da cui tutto è partito: "Cosa potremmo aggiungere ad un lavoro terapeutico individuale per mettere in pratica ciò che è stato riconosciuto, costruito ed acquisito durante il lavoro di terapia individuale?"  La risposta è arrivata quasi spontaneamente. Ci siamo detti che era necessario un contesto, un laboratorio artigiano a metà tra il contesto naturalistico e quello del canonico setting terapeutico individuale in cui ciascun partecipante, compreso noi conduttori, avremmo potuto lavorare sulla fine pratica di abilità necessarie alla nascita ed alla costruzione di relazioni.   Come è noto, le persone neurodivergenti, in particolare le persone autistiche, hanno spesso difficoltà marcate nell'esercizio di reciprocità, abilità di immedesimazione nel punto di vista dell'altro, ristrettezza di interessi e rigidità, aspetti, questi, che a valle generano delle difficoltà nell'instaurare e mantenere relazioni con gli altri. Ci siamo così rifatti all’attuale letteratura scientifica in ambito di trattamento integrato individuale e di gruppo per la neurodivergenza in cui il gruppo è riconosciuto come produttore di stimoli e promotore di neostrategie per far fronte all'alterità ed al bisogno di flessibilità. Ma quale sarebbe stato il terreno comune sul quale scendere in campo? A questa seconda domanda ci siamo risposti che il gioco, nell'accezione piagetiana, potesse essere quel terreno su cui far fiorire delle opportunità di sperimentazione mediata. Da qui abbiamo scelto una serie di giochi da tavolo mirati e pensati in un'ottica di stimolazione via via più complessa di queste abilità.   Oggi, siamo a metà di questo primo ciclo, e scriverne si arricchisce di un più che positivo dato di realtà derivante dal frammento di percorso già compiuto.  La notizia che ci spinge a condividere e ci sprona a pensare ad una continuità del progetto è che durante l'evolversi degli incontri si sono create nuove amicizie e che, forse ancora più importante, stiamo, tutti insieme - conduttori compresi - apprendendo nuove abilità e nuovi linguaggi, “rompendo” i confini e imparando piano piano l’arte di costruire ponti tra linguaggi diversi e tutti legittimi. C'è stato chi si è messo in gioco interessandosi a temi diversi dai propri ed ancora di più a progettare uscite indipendenti dagli incontri compresi nel progetto. "Andiamo a vedere il nuovo film di Dungeons&Dragons? Però vediamo quando ci siamo tutti" Durante il gioco siamo passati dal "devo vincere, gliela devo fare difficile" al "devo pensare come te altrimenti non indovino", o, ancora, “se gli do questo indizio, conoscendolo, capirà!”. Queste frasi parlano a chi, per esperienza di vita o per esperienza professionale, conosce la neurodivergenza ed in esse riconoscerà un grande valore, ma si rivolgono anche a coloro che, e questo è il nostro augurio, possano così iniziare ad interessarsi all'alto valore del gruppo come strumento di promozione individuale e sociale in un'ottica di approccio integrato. E, si, ne siamo sempre più convinti che, come ci insegna Platone “Si può scoprire di più su una persona in un’ora di gioco che in un anno di conversazione.” I laboratori di “Aut-Off-icina” continueranno, soprattutto grazie all’energia dei ragazzi, che si fanno sempre più promotori di un impianto in crescita, che comincia a ruotare intorno a un meccanismo in parte auto-gestito, seppur sempre mediato dai conduttori. Il progetto futuro prevede la possibilità che alcuni ragazzi diventino “esperti” per compartecipare alla mediazione dei nuovi gruppi in formazione. Il divertimento non manca mai, e, soprattutto, la percezione di essere tutti insieme, uguali e diversi, e di capirci giocando, esercitando un’attività che va al di là della competenza tecnica – senza tuttavia dimenticarla mai – e che entra nel terreno prezioso, e del dono, che è la relazione e il sentirsi compresi e realizzati in essa. Vi terremo aggiornati sulle attività in corso e sulle prossime! Seguiteci sul sito e sulla pagina social dello Studio SNPC. Da Aut-Off-icina, naturalmente, NON è tutto! Date la tante idee che bollono in pentola vi terremo aggiornati! Dott. Francesco Di Nocera e Dott.ssa Maria Marino - Studio Napoletano Psicologia Cognitiva                  

01 febbraio 2023

Il Lutto ed il tempo in cui accade, Dott.ssa Anna Sicolo - Studio Napoletano...

 "Alla sua tomba come a tutte quelle su cui piansi, il mio dolore fu dedicato anche a quella parte di me stesso che vi era sepolta".                                                                                                  Italo Svevo   Il dolore per la perdita di un nostro caro è indubbiamente una delle dimensioni più complicate e al contempo profondamente naturale per l’essere umano. Le reazioni a questo dolore possono apparentemente differire ma seguono lo stesso processo, fronteggiando una sofferenza acuta, che spesso segna un prima ed un dopo nel percorso di vita che stavamo attraversando. Studi etnografici ci dicono che il pianto e la rabbia vengono rintracciati in maniera trasversale nelle popolazioni e che la manifestazione pubblica del lutto invece, risente dei valori e delle caratteristiche di quel tipo di cultura (Stroebe e Stroebe, 1987). Il lutto ed i suoi fenomeni emotivi, cognitivi e comportamentali, i suoi processi, sono stati ben approfonditi e molti autori intercettano alcune fasi, ognuna delle quali si attua con una ben precisa prospettiva: l’elaborazione della “perdita”. Bowlby, nel suo libro “La Perdita” (1981) ben descrive la dinamica della riorganizzazione cognitiva, emotiva e profonda a cui l’essere umano è chiamato quando esperisce il dolore della morte di una persona cara. Distingue 4 fasi caratterizzate da vissuti emotivi differenti (come collera,rabbia e tristezza), che trovano il loro motore comune nel bisogno di ricerca e ricongiungimento con la persona cara e la comune direzione in una riorganizzazione complessiva del suo sistema rappresentazionale. Il dolore si muove e si ri-significa in questo processo, la sua durata nel tempo è connessa ad elementi e caratteristiche di quella relazione, unica nel suo compimento. Il momento in cui il lutto accade, però, è un tempo preciso, una finestra definita nella vita dell’individuo, una fotografia di un pezzo quotidiano della nostra esistenza. Questo incide come un congelamento, un blocco o una sospensione di stati e processi che erano in atto in quel particolare momento evolutivo nel ciclo di vita di una persona. Il vissuto che accompagna questa dinamica di discontinuità è spesso un senso di perdita cupo, talvolta mitigato, ma angoscioso e profondo, lungo nel tempo.                                               “Quel giorno ho perso una parte di mè”  La “riorganizzazione”, quindi, in un’ottica di elaborazione del lutto, implica anche il recupero di quel tempo, di quel preciso momento nel mondo dove una parte di noi è rimasta, in quel dove in cui il lutto è accaduto.   Dott.ssa Anna Sicolo - Studio Napoletano Psicologia Cognitiva    

20 dicembre 2022

I Disturbi del Comportamento Alimentare in età evolutiva: “nuove”...

Dott.ssa Maria Marino – Studio Napoletano Psicologia Cognitiva Lo scorso 9 Dicembre si è svolto, ad Ancona il Congresso Intermedio della “SITCC”, la Società Italiana di Terapia Cognitivo Comportamentale, dal titolo: “La terapia Cognitivo Comportamentale in età evolutiva: nuove prospettive e linee di intervento”. E’ stata un’occasione per colleghi e specialisti di riunirsi - finalmente di persona dopo le lunghe e faticose restrizioni imposte dalla recente pandemia, e per riaprire una discussione sullo stato dell’arte dei trattamenti per l’età evolutiva, anche alla luce di quanto questa ampia e delicata fascia di età sia stata provata dall’esperienza del COVID-19 e di come la stessa pandemia abbia inciso sui dai epidemiologici ed espressivi nella psicopatologia dell’età evolutiva. Lo Studio Napoletano di Psicologia Cognitiva è stato, insieme al Centro Clinico Astrea di Roma, presente al Convegno, con un contributo sui Disturbi del Comportamento Alimentare, del quale riportiamo una breve sintesi, data la rilevanza di questa condizione clinica - che riguarda sempre più persone, anche in una fascia di età prepubere e infantile e in modo trasversale rispetto al genere e alla cultura di appartenenza,  soffermandoci, in particolare, sui disturbi caratterizzati da restrizione e selettività alimentare (Anoressia e ARFID). L’Anoressia nervosa è una malattia psichiatrica frequente, grave e con un alto tasso di cronicizzazione e rischio di mortalità (quasi 6 volte maggiore a quello della popolazione generale). Le caratteristiche fondamentali sono rappresentate da una preoccupazione patologica per il peso e le forme corporee, da alterazione dell’immagine corporea. Nel temperamento e nella “personalità” dei soggetti che tendono a sviluppare un disturbo del comportamento alimentare, ci sono tuttavia, anche prima dell’esordio delle caratteristiche strutturali e sottostanti che connotano il comportamento e aumentano la vulnerabilità a sviluppare questo specifico disturbo. Questi elementi “premorbosi”, sono relativi a processi neuropsicologici e metacognitivi, quali vulnerabilità nel senso autoefficacia percepita (valutata come un passaggio brusco tra “sono capace” a “non sono capace”), rigidità, perfezionismo, harm avoidance (un insieme di caratteristiche orientate a “evitare” il contatto con le emozioni connotato da un carattere ipercontrollante e inibito). Gli elementi sottostanti allo sviluppo dei comportamenti alimentari restrittivi e selettivi, insieme all’abbassamento dell’età di esordio e ai dati relativi all’influenza di fattori genetici (dati che provengono dagli studi su gemelli) hanno contribuito a fornire importanti spunti di riflessione su questo complesso problema. In particolare, sono di grande rilievo per la comprensione delle caratteristiche e per lo sviluppo di trattamenti efficaci, le recenti conoscenze relative a: la presenza di selettività alimentare (tendenza a selezionare i cibi in base alla sensorialità) nell’infanzia di soggetti che poi svilupperanno anoressia nervosa; la frequente presenza sempre in infanzia di ARFID (acronimo inglese per indicare il Disturbo Evitante/Restrittivo dell’assunzione di cibo, che si manifesta tipicamente in età pediatrica e provoca restrizione alimentare in assenza di ideazione anoressica); la rilevanza di tratti autistici, spesso presenti in persone con anoressia nervosa. Perché questi elementi sono importanti da individuare? La selettività alimentare e l’ARFID (che è, quest’ultimo, il disturbo alimentare più frequente in età pediatrica) sono problemi in crescita e in aumento, sicuramente anche per una maggiore sensibilità e capacità di individuarli da parte degli specialisti. Entrambe le problematiche, che siano di natura reattiva (seguite cioè a eventi condizionanti o traumatici) o connesse ad autismo, possono rappresentare un rischio per la salute, hanno un impatto negativo sulla qualità di vita del soggetto e della famiglia e aumentano il rischio di sviluppare, successivamente, un disturbo del comportamento alimentare, in particolare l’Anoressia Nervosa. Abbiamo cercato, quindi, di evidenziare come sia indispensabile individuare tali problematiche, che hanno una rilevanza specifica e rappresentano fattori di rischio per lo sviluppo di ulteriori disturbi e di discutere su quali siano le strategie di intervento auspicabili sulla base delle attuali conoscenze. Attualmente sappiamo che il coinvolgimento dei familiari è indispensabile ed è una grande risorsa nel trattamento delle fasi precoci e più insidiose dei Disturbi Alimentari. Ci sono evidenze relative all’utilità di applicare protocolli basati sulla teoria dell’attaccamento e/o sulla psicologia dello sviluppo. Questi protocolli, hanno il primo obiettivo di aiutare i genitori empatizzando con il grave conflitto emotivo che si trovano a gestire tentando di fronteggiare il problema alimentare del proprio bambino: i genitori si sentono, infatti, da un lato, spinti a proteggere il proprio figlio che appare vulnerabile a causa del problema, ma, al tempo stesso provano rabbia, dato che il problema che cercano di risolvere dipende in un certo qual modo dallo stesso bambino che “non vuole” mangiare. Questo innesca una contraddizione inizialmente irrisolvibile, perché fonte e vittima della minaccia sembrano coincidere agli occhi dei genitori che, quindi, comprensibilmente danno vita a comportamenti contraddittori, alternando “suppliche a minacce”. Nel lavoro è indispensabile empatizzare e aiutare i genitori a uscire da questa contraddizione, separando il proprio figlio dal problema che lo affligge e ripristinando gradualmente una capacità genitoriale supportiva e autorevole, “sicura”. Nell’ambito delle relazioni presentate si è parlato del modello del Circolo della Sicurezza (COS) e del Family Based Treatment come protocolli di intervento efficaci, basati sulla psicologia dello sviluppo e focalizzati a ripristinare condizioni di salute (BMI e peso corporeo) e abitudini alimentari sane, anche attraverso il lavoro sulla famiglia e il supporto alle capacità genitoriali. In una prospettiva di matrice cognitivo-comportamentale (terreno comune della formazione di tutti gli specialisti intervenuti a questo simposio) che però tenga conto della necessità di approcciare al paziente attraverso una formulazione del caso attenta alle caratteristiche individuali e alla storia di vita della persona, si è tenuto conto anche del dato di letteratura relativo all’incidenza di esperienze traumatiche nella storia di vista dei soggetti con Disturbi del comportamento alimentare, presentando contribuiti, a partire da esperienze cliniche di lavoro tramite protocollo EMDR (dall'inglese “Eye Movement Desensitization and Reprocessing”, in italiano “desensibilizzazione e rielaborazione attraverso i movimenti oculari”)  un metodo psicoterapico strutturato, interattivo e standardizzato, che facilita il trattamento di diverse psicopatologie e problemi legati sia ad eventi traumatici, che a esperienze più comuni ma emotivamente stressanti e che mostra dati che evidenziano la sua utile applicazione anche nel trattamento di aspetti connessi e di comorbidità  complesse (psicopatologie associate) nei DCA. Sempre al fine di sviluppare strategie ritagliare sul paziente e basandosi sulle recenti evidenze della letteratura, si è discusso delle strategie di intervento utili in presenza di alcune caratteristiche di esordio. Più su abbiamo sottolineato come un aspetto fondamentale dell’Anoressia Nervosa sia la preoccupazione eccessiva per il peso e le forme corporee che, in un’età come quella adolescenziale dove il corpo è fisiologicamente un oggetto di attenzione, diventano l’unico “metro” per valutare e “controllare” il proprio senso di efficacia e valore personale, sviluppando un’emotività e un comportamento coerenti con questo scopo ma compromessi sul piano psicopatologico. Questo è un insieme di caratteristiche spesso presente, specie negli esordi in età adolescenziale, quelli più “tipici”. Tuttavia, in altre circostanze (sempre più incidenti per quanto possiamo apprendere dai dati epidemiologici e dagli studi sulle caratteristiche psicopatologiche e neuropsicologiche), possiamo trovarci di fronte a un esordio precoce (età peri o prepubere) che spesso si accompagna a marcati deficit neuropsicologici e a una mancata percezione delle caratteristiche emotive e mentali sottese al disturbo (i pazienti, cioè, anche per una fisiologica immaturità cognitiva dovuta all’età o per caratteristiche neuropsicologiche specifiche “non sanno spiegare” perché sono portati a non mangiare). Abbiamo, quindi, presentato lavori clinici e evidenze di letteratura, indicativi della possibilità di lavorare con questi pazienti, sui processi neuropsicologici più che sull’emotività, che spesso, almeno in una prima fase è “inibita” o non “mentalizzata” e quindi meno presente come variabile sulla quale lavorare con il paziente. In tali circostanze, alcune strategie mutuate dalla Cognitive Remediation Therapy – CRT (Terapia di riabilitazione cognitiva) appaiono molto utili per aiutare il paziente - attraverso l’utilizzo di tasks e giochi, a lavorare per aumentare la flessibilità cognitiva, la capacità di sintesi e di equilibrio tra attenzione al dettaglio e capacità globali (sintetiche), la capacità di spostare l’attenzione e altri processi mentali molto connessi con l’anoressia e la restrizione alimentare. Tale lavoro è spesso utile per aumentare la flessibilità mentale del paziente, agendo anche in modo indiretto sui sistemi emotivi e comportamentali connessi al DCA, mentre aumenta la capacità del paziente stesso di riflettere sui propri pensieri e sulle emozioni connesse al problema alimentare. E’ stato anche evidenziato come tale lavoro sui processi sia trasversale e utile anche in casi di comorbidità tra Autismo e Anoressia, caratteristiche spesso associate e rispetto alle quali sono in corso studi per determinare i meccanismi di associazione e i loro significato.  Volendo tirare le somme, bisogna partire dall’evidenza di quanto il COVID abbia purtroppo inciso sull’aggravamento dei sintomi di pazienti con diagnosi di DCA e quanto abbia contribuito anche a nuovi esordi. Alcuni dati scientifici evidenziano un aumento del’80% di problematiche inerenti i DCA successivamente alla pandemia. Questo dato, insieme alle evidenze relative all’età di esordio, alla prevalenza di questi disturbi nelle minoranze sessuali, all’incidenza di disturbi alimentari in età pediatrica, alla rilevanza di elementi di neurosviluppo associati e alla complessità dei meccanismi eziopatogenetici associati, suggerisce la necessità di un approccio fortemente radicato in una solida conoscenza ma al contempo focalizzato sulle caratteristiche individuali del singolo paziente. Un lavoro supportato dai protocolli teorici e clinici ma che sappia essere “sartoriale” e integrato, rispetto al coinvolgimento di diverse figure professionali, all’ingaggio dei familiari, fino all’utilizzo di diverse strategie e tecniche di intervento.   Per approfondire le attività formative e cliniche: www.studiopsicologianapoli.it www.centroclinicoastrea.it     Copyright foto:Fotolia    

18 ottobre 2022

NON DIRLO AL WEB, DILLO ALLO PSICOTERAPEUTA: La pervasitvità dei social e il...

NON DIRLO AL WEB, DILLO ALLO PSICOTERAPEUTA: La pervasitvità dei social e il loro impatto sui nostri comportamenti quotidiani e sulla rete di supporto sociale. Dott. Roberto Esposito, Studio Napoletano Psicologia Cognitiva   Il livello di sviluppo tecnologico attuale ci permette di ricorrere all’uso del web per ogni genere di cosa: dal tutorial su come trasformare un vecchio mobile, alla ricetta su come preparare il polpettone. L’utilizzo del pc o degli smartphone, dalle app per imparare le lingue, a quelle che ci forniscono indicazioni stradali, i podcast, la visione di un film piuttosto che il programma di disegno ci forniscono supporti validissimi per fare, imparare, risolvere numerose questioni relative ad altrettanti numerosissimi ambiti: basti pensare quanto la tecnologia ci sia stata di fondamentale aiuto durante la ben nota pandemia che ci ha chiusi in casa per un bel pò di tempo. Senza i supporti tecnologici di cui ormai siamo tutti in possesso da un pò non avremmo potuto espletare una serie di compiti, soprattutto legati all’istruzione. Non avremmo potuto stare in compagnia nonostante l’impossibilità ad uscire. Non avremmo potuto condividere, imparare, ascoltare, leggere, guardare, sentire un mucchio di cose e persone. Ma c’è un però. Ogni giorno trascorriamo moltissimo tempo sui social media, strumenti validissimi per una miriade di motivi, diffusi in tutto il mondo e che ci consentono di sentirci connessi gli uni agli altri, di condividere aggiornamenti, opinioni, sapere e tanto altro. Ma come tutti gli strumenti necessita di un corretto utilizzo. Durante gli ultimi due anni l’utilizzo mondiale di alcune piattaforme ha permesso di effettuare una massiccia raccolta dati su vari trend, opinioni, ideologie e stile di vita che ha dato luogo ad una serie di approfondimenti e ricerche sul tema riguardante l’utilizzo eccessivo dei social network e le problematiche che ne derivano. La pervasività dei social nei nostri comportamenti quotidiani ha sottolineato una conseguenza di tale abuso: parliamo di una dipendenza definita  “internet dipendenza”. Una serie di studi condotti sugli adolescenti rivelano l’aumento dell’ansia sociale correlato ad un uso eccessivo dei social media, questo dato sembra predire un effetto preoccupante: maggiore è l’uso dei social, minore è il supporto sociale che la persona riceve nella vita reale. Ogni giorno osserviamo sui social la condivisione di momenti vissuti nella vita reale, di emozioni, di paure e bisogni, vediamo scritta su un post la richiesta di un parere, la conferma di un punto di vista. Le bacheche trasudano richieste di aiuto, incitano al riconoscimento delle proprie sofferenze in una sorta di “mal comune, mezzo gaudio!” Quando cerchiamo un confronto on line il fine dovrebbe essere quello di ricevere comprensione, conforto, supporto. Riguardare sé stessi o come ci descriviamo/mostriamo agli altri attraverso uno schermo dovrebbe indicarci quali sono i i confini che definiscono un utilizzo sano dei social rispetto ad un abuso che tende a distorcere la percezione che abbiamo di noi. Sembrerebbe più facile aprirsi e descriversi al mondo intero piuttosto con chi ha gli strumenti per aiutarci! Eppure ci sono figure professionali formate per offrire la comprensione, il conforto e il supporto di cui abbiamo bisogno: gli psicoterapeuti Comunemente ci si rivolge ad uno psicoterapeuta in presenza di questi elementi: quando ci si sente tristi e impotenti in maniera invalidante; quando le difficoltà emotive rendono difficile lo svolgimento della quotidianità; quando le proprie azioni rappresentano un pericolo per se stessi e per gli altri; quando si è spinti dalla famiglia o dagli amici. Ancora oggi si ha una certa reticenza ad affidarsi ad uno specialista in mancanza dei succitati elementi per la comune convinzione di non avere bisogno di aiuto, di potercela fare da soli, di non avere problemi irrisolvibili. Ma perchè si continua a pensare di dover arrivare a stare male sul serio per chiedere aiuto? Perchè si continua a pensare che chi va dallo psicologo è all’utima spiaggia? La ricerca prova l’efficacia della psicoterapia nella riduzione di sintomatologie associate alla depressione e all’ansia, come dolore, stanchezza cronica, nausea, nell’aiutare il sistema immunitario a compiere correttamente la sua difesa, nel contribuire ad un  miglioramento dello stato di salute generale in quanto la salute fisica e quella emotiva sono strettamente collegate. La terapia non è un processo facile e non tutti si sentono pronti ad affrontarlo, tuttavia consultare un esperto e parlare con lui dei propri problemi emotivi dà un sollievo immediato e duraturo. Il coraggio e la fiducia riposti nel web nel momento in cui affidiamo ai social i nostri problemi possono farci comodo nel momento in cui scegliamo di affidarci ad un interlocutore diverso ed esperto quale uno psicologo.    

20 luglio 2022

Psicoterapia dello spettro autistico lieve e dell’Asperger in adolescenza e...

Psicoterapia dello spettro autistico lieve e dell’Asperger in adolescenza e in età adulta: riflessioni sulla diagnosi, la clinica e l’etica nel contesto del lavoro e della relazione terapeutica. DOTT.SSA MARIA MARINO, psicologa, psicoterapeuta cognitivo – comportamentale. Studio Napoletano Psicologia Cognitiva   Sintesi del contributo dalla diretta on line di mercoledì 20 Luglio (link al video disponibili in coda) Ho avuto il piacere di essere invitata dal collega wladimir fezza per questo scambio, che vorrei riguardasse una riflessione aperta sulle buone pratiche cliniche, che concernono l’accuratezza della diagnosi di autismo e la messa a punto di un intervento psicoeducativo e terapeutico che deve, prima di tutto, riguardare - non la medicalizzazione - ma l’informazione e il supporto alla consapevolezza della persona autistica. Questo tira in ballo un discorso ampio e complesso, perche’ la neurodivergenza autistica e’ spesso assimilata a una condizione di “disabilita’” o di “deficit”.  e, in termini di distribuzione percentuale e di intensita’ o tipo di caratteristiche, spesso è vero che l’autismo si esprime come un insieme complesso di deficit dell’interazione socio – comunicativa e di comportamenti e interessi ristretti, ripetitivi e stereotipati, che possono causare gravi difficolta’ accompagnandosi a profondi deficit comunicativi, a disabilita’ intellettiva e a comorbidita’ per disturbi del comportamento, psicopatologici e neurologici, spesso gravi. Ma la concezione tout court di neurodivergenza come “disabilita’” o “deficit” va, quantomeno, problematizzata e discussa. perche’ non e’ ,di per se’, una condizione “clinica”. Questo e’ un discorso che naturalmente, per quanto concerne lo spettro autistico, coinvolge in particolar modo le condizioni piu’ sfumate di autismo, quelle che si collocano all’estremo piu’ lieve dello spettro e che prima dei cambiamenti dei criteri diagnostici e categoriali definivamo “Asperger”, mentre ora vengono definite come: “disturbo dello spettro autistico di livello 1, senza compromissione intellettiva e del linguaggio associata”. Il termine “Asperger” e’ tuttora utilizzato e il suo reinserimento all’interno della macrocategoria dello spettro e’ attualmente oggetto di discussione. Pertanto io lo usero’ qui per riferirmi all’autismo lieve. Come in tutte le condizioni che riguardano aspetti strutturali di un individuo, anche nell’Asperger e’ fondamentale, quindi, distinguere cio’ che è “clinico” da cio’ che non lo è. E’ importante muoversi nel rispetto della buona prassi clinica e terapeutica e, al contempo, non patologizzare la persona o le sue caratteristiche e viceversa. Per questo lo scambio di oggi riguarda la clinica ma anche la consapevolezza, l’advocacy e l’etica. Per cercare di muoversi nel lavoro tenendo conto di questo principio, possiamo tenere presente alcune acquisizioni che vengono dall’antropologia ma anche dalle neuroscienze, che studiano il sistema nervoso e il suo sviluppo e che possono aiutarci nella comprensione dei molteplici aspetti dell’autsimo. Una riflessione riguarda certamente il concetto di  neurodiversita’, termine oggi molto usato. Il termine “neurodiversity” e’ stato introdotto alla fine degli anni ’90 da una studiosa e attivista autistica, la Dott.ssa Judy Singer. Il concetto di “neurodiversita’” richiama quello di “biodiversita’” e si riferisce alla “illimitata variabilita’ della cognizione umana e all’unicita’ di ogni mente umana” siamo tutti “neurodiversi” in questo senso. La neurodiversita’ comprende tanto le persone il cui sistema nervoso ha seguito uno sviluppo considerato “tipico” quanto coloro che vengono raggruppate in un neurosviluppo differente, come nel caso dell’autismo appunto. La parola “neurodiversità” riguarda quindi ogni cervello umano, mentre altre condizioni del neurosviluppo, come l’autismo, vengono definite “neuroatipiche” o “neurodivergenti”. Con “neurodivergenza” si intende, quindi, un processo di sviluppo del sistema nervoso che porta a una configurazione che diverge dalla “norma tipica” e che causa delle caratteristiche cognitive, sociali e comportamentali, spesso definibili e caratterizzanti. Il neurosviluppo e’ un processo complesso, su base genetica e con una complessa interazione tra geni e ambiente. L’autismo viene appunto definito come una condizione di sviluppo neurodivergente, su base neurobiologica. Le caratteristiche dell’autismo sono visibili in genere dalla prima infanzia e le caratteristiche di neurodivergenza autistica riguardano le manifestazioni del cosiddetto “cervello” sociale: interazione sociale e comunicativa tipica, presenza di comportamenti e interessi peculiari, ripetitivi e stereotipati, processi cognitivi e metacognitivi divergenti in relazione alla modulazione del monitoraggio, dell’empatia, della teoria della mente, del decentramento e delle strategie di coping. questo, insieme a una maggiore reattivita’ emotiva e comportamentale. Il concetto di “neurodivergenza” è quindi  veramente fondamentale nel nostro discorso. L’autismo, nella cultura scientifica e nei manuali categoriali, clinici e di intervento e’ definito come un “disturbo del neurosviluppo”, che presenta, in modo estremamente variabile, delle caratteristiche centrali, i cosiddetti “core symptoms”: deficit socio-comunicativi e anomalie del comportamento. Come accennavamo prima, l’autismo raccoglie ed esprime un insieme di condizioni che, sono, di fatto, molto eterogenee e diverse tra loro, poiché il numero e il livello di intensità e gravità delle manifestazioni e dei sintomi può variare considerevolmente. Esistono così le forme di autismo più gravi e marcate - per esempio quelle con compromissione del linguaggio, disabilità variabile del livello cognitivo e presenza di disturbi del comportamento, e le forme più lievi, fino ad arrivare ai quadri più sfumati, i cosiddetti «alti funzionamenti», caratterizzati da assenza di compromissione del linguaggio e livello cognitivo nella norma o superiore. …e ancora “oltre”, fino alle forme più sfumate, che si collocano all’estremo più lieve dello spettro dell’autismo, e che prima erano classificate sotto il nome di sindrome di Asperger. l’Asperger è una condizione del neurosviluppo caratterizzata da processi variabili per presenza, frequenza ed intensita’ espressiva in diverse aree: interazione sociale, comunicazione  e pragmatica sociale, immaginazione, stile di eleborazione delle informazioni sociali, non sociali e propriocettive, caratteristiche metacognitive, sensibilità sensoriale, presenza di interessi speciali, forte bisogno di routine, goffagine motoria. Rispetto al cosiddetto “autismo classico” (kanneriano), presenta aspetti di intensità e, quanto presenta elementi sintomatici, qualità sintomatologica diversa , oltre che quoziente intellettivo nella norma o spesso molto superiore alla norma,  presenza di talenti – abilità savant - in alcune aree e per l’assenza di ritardo nello sviluppo del linguaggio. Tornando alla questione della neurodivergenza, il punto e’ che quello che definisce una condizione come “clinica” nell’ambito dello sviluppo e della psicopatologia e’ la presenza di segni e sintomi e l’impatto sul funzionamento in diversi contesti di vita, oltre che il grado di sofferenza soggettivamente esperita. E’ su questo che si pone la diagnosi. E’ chiaro quindi che, se per alcune condizioni e circostanze correlate all’autismo ci dobbiamo collocare in un ambito di rilievo clinico, non tutti i fenomeni legati alla neurodivergenza sono di per se’ “patologici” o “clinici”. Lo stile di elaborazione delle informazioni sociali e non sociali (per non sociali intendiamo anche quelle che provengono dal corpo e dalla nostra percezione emotiva e cognitiva), le caratterisiche metacognitive e lo stile socio-comunicativo e comportamentale ad esse collegato, non sono assimilabili a un processo patologico: spesso diventano una fattore di vulnerabilita’ quando non compresi e, soprattutto, nella frizione che si crea tra il modo di relazionarsi di un autistico con il modo di relazionarsi di un neurotipico, dati i differenti stili nel modo di esprimersi, iniziare, e mantenere una conversazione, condividere e  manifestare interessi e reciprocità, esprimere giudizi, recepire e modulare le norme sociali all’interno della comunicazione e dei contesti, reagire alla quantita’ e alla complessita’ di stimoli. Molto spesso il problema e’ correlato a questo e non necessariamente connaturato nell’autismo, che e’ una condizione di sviluppo del cervello. Questa prospettiva, per cui la neurodivergenza non e’ di per se assimilabile a una disabilita’ o a una “sindrome” e’ fondamentale da diversi punti di vista. Sul piano “diagnostico”, perche’ ci ricorda che non stiamo parlando di una “malattia” da curare o dalla quale “guarire” ma di una condizione connaturata allo sviluppo della persona, che si intreccera’ con la formazione della sua identita’ e del suo carattere. Sul piano “clinico” più ampio perche’ ci aiuta ricordare l’importanza di separare i segni e i sintomi da quelli che segni e sintomi non sono, ma sono caratteristiche neurodivergenti che vanno comprese e illuminate dalla consapevolezza: non vanno curate, vanno viste e gestite, dalla persona autistica in primis, nel rispetto prima di tutto delle proprie esigenze e in funzione di una maggiore mastery nei diversi ambienti di vita. Sul piano “etico” perche’ il rispetto delle caratteristiche individuali e una visione paritaria e non medicalizzata a oltranza dovrebbe ispirare sempre la nostra pratica clinica e, per quanto riguarda l’autismo, questo e’ anche in linea con la crescita di cultura e consapevolezza portata avanti dalle persone autistiche che sono sempre piu’ coinvolte nel diffondere in prma persona testimoniante, informazioni e cultura sull’autismo. Nella pratica psicoterapeutica infine, questo e’ fondamentale perche’ connota il modo in cui nasce e si sviluppa la relazione e il senso condiviso dell’intervento terapeutico. Spesso i ragazzi o gli adulti arrivano senza “sapere” di essere autistici o portati per le problematiche relazionali, di ansia, di apprendimento o di comportamento spesso correlate all’autismo, con l’idea che si debba lavorare per “cambiare” qualcosa. naturalmente questo assunto alimenta il sottostante vissuto di diversita’ e inadeguatezza relativo all’idea che ci sia “qualcosa che non va”. Per superare questo gap, questo bias, che segnerebbe una definitiva percezione della persona, anche all’interno del contesto “terapeutico”, come aliena, bisogna lavorare sulla consapevolezza delle caratteristiche di interazione, di comunicazione e di comportamento, da una prospettiva accurata rispetto ai processi di neurosviluppo, neurodiversita’ e neurodivergenza. questo - mantenendo una accuratezza scientifica e una consapevolezza clinica – aiutando la persona autistica a divenire consapevole del senso e della connotazione del proprio modo di essere e di come queste caratteristiche possano impattare nei contesti sociali, diventando in questo questo intreccio, elementi di vulnerabilita’ che, se compresi, possono invece essere padroneggiati o possono portare la persona ad ottenere i livelli di assistenza e supporto adatti. Dott.ssa Maria Marino   Video della diretta disponibile ai link: https://fb.watch/enKuQTrE7x/ https://youtu.be/1IWyBfkq528  

04 luglio 2022

Crepe della civiltà: la solitudine delle famiglie e la sofferenza psichica...

“Buongiorno dottoressa, mi chiamo Laura ed ho bisogno di aiuto…non per me ma per mio fratello, i miei sono anziani…non sappiamo più che fare, è grande…era seguito ma la situazione è diventata ingestibile” Sempre più spesso, i terapeuti in ambito privato vengono contattati da familiari di persone che vivono una difficile condizione di sofferenza, conseguente ad una patologia psichiatrica: la richiesta di aiuto è spesso disperata, poiché sentono di non poter più fronteggiare alcune situazioni. Chiamano come fosse l’ennesimo tentativo di capire, di trovare una strada, una strategia che allevi una condizione di vita esasperata. Il più delle volte, sono persone affette da patologie psichiatriche seguite nelle ASL di competenza, ma in maniera intermittente e senza un piano terapeutico integrato e multidisciplinare, senza comunicazione con i care-giver o i familiari più vicini. Questo crea un enorme buco nelle rete sanitaria e di conseguenza sociale, inficiando sulla qualità di vita di una grande fetta di popolazione oppure nei casi più gravi, implica conseguenze drammatiche. Questo è una diretta conseguenza di infinite sforbiciate economiche che da molti anni tagliano i fondi alla Sanità Pubblica ed in particolare ai presidi sanitari  preposti alla salute mentale. La gravità assoluta sta nella consapevolezza e nell’evidenza che la dimensione della salute mentale non può essere trattata esclusivamente in urgenza, e che l’unico intervento di cura efficace e produttivo, è la presa in carico del paziente e la comunicazione con i familiari, in un assetto multidisciplinare, in luoghi congrui per strutturare attività di cura e progetti  sociali. Il confronto con i colleghi delle strutture pubbliche, ci conferma il loro sconcerto, nella mancanza di mezzi e strutture. Sono oberati da un numero sempre crescente di pazienti e da richieste legittime di seguimenti da parte dei familiari: hanno dimezzato gli operatori, i turni, centri e luoghi di cura e prevenzione. Spesso, nei casi più complessi, il filo di connessione rimane la visita di controllo oppure la chiamata in urgenza, in una dimensione che coinvolge tutti nell’impotenza, talvolta rabbiosa oppure di resa totale. I tagli non hanno portato ad alcun risparmio, poiché gli interventi in urgenza e gli effetti sul piano del benessere sociale sono molto più cari, la società non ne trae alcun beneficio di crescita.  Inoltre, impedire le cure in uno Stato, oltretutto “moderno”, va nella direzione opposta ai principi della civiltà, e questo ci riporta all’antropologa Margaret Mead. Tra i numerosi lavori condotti sul campo, ha indagato sul genere e sull’adolescenza osservando gruppi sociali in più parti del mondo, ha studiato vari aspetti della natura umana e dell’impatto con i fattori ambientali, gettando le basi a numerosi studi successivi nelle scienze psicologiche e sociali.  L’antropologa, nel racconto di Ira Byock,  evidenzia con chiarezza come  il concetto di cura e medicina sia il primo segno della costruzione della civiltà, i cui albori vengono rappresentati da un femore guarito: “aiutare qualcun altro nelle difficoltà è il punto preciso in cui la civiltà inizia. Noi siamo al nostro meglio quando serviamo gli altri. Essere civili è questo”.    Dr.ssa Anna Sicolo Studio Napoletano Psicologia Cognitiva 

29 maggio 2022

Bonus Psicologico: news, incertezze e...occhi aperti!!!

Bonus psicologico, decreto firmato: Il ministro della Salute, Roberto Speranza, ha annunciato la firma del decreto che fissa il via alla partenza del percorso bonus e le procedure su come ottenerlo. Le risorse stanziate ammontano a circa 10 milioni di euro e si stima possano aiutare una platea di circa 16 mila italiani. Il contributo, che arriva a un massimo di 600 euro, sarà assegnato in base a tre fasce di reddito Isee, che non dovrà superare i 50 mila euro e dovrà essere speso entro 180 giorni. Chi avrà diritto al bonus: Le persone in stato di depressione, ansia, stress e fragilità psicologica «a causa dell’emergenza pandemica e della conseguente crisi socio-economica - come si legge nel testo del decreto all’articolo 1 -, che siano nella condizione di beneficiare di un percorso psicoterapeutico». Come si legge nell’articolo 2, il bonus servirà a coprire la spesa relativa a sessioni di psicoterapia presso «specialisti privati regolarmente iscritti nell’elenco degli psicoterapeuti, nell’ambito dell’albo degli psicologi, che abbiano comunicato l’adesione all’iniziativa all’ordine professionale di appartenenza».  L'elenco dei professionisti che daranno la loro adesione verrà pubblicato sul sito del Consiglio nazionale dell’Ordine degli Psicologi e sui diversi siti degli enti regionali e provinciali, oltre che in una sezione riservata della piattaforma Inps. A chi è rivolto il bonus: Il bonus, erogabile una sola volta, è rivolto alle persone con un reddito Isee inferiore a 50 mila euro, allo scopo di sostenere le fasce di reddito più basse. L’articolo 4 identifica tre fasce per l’erogazione e l’attribuzione del bonus:  - Con un Isee inferiore ai 15 mila euro, l’importo erogato è pari al massimo stabilito di 600 euro per ogni beneficiario, equivalente a 50 euro a seduta; - Con un Isee compreso tra 15 e 30 mila euro, viene erogato un importo pari a 400 euro per ogni richiedente; - Con Isee compreso tra 30 e 50 mila euro, l’importo erogato è pari a 200 euro per ciascun cittadino Come richiederlo: Entro 30 giorni dalla data di pubblicazione del decreto in Gazzetta Ufficiale, l’Inps e il ministero della Salute comunicheranno attraverso i loro canali informativi a partire da quando sarà possibile presentare le domande di accesso al bonus e il periodo di tempo. Per presentare domanda, si dovrà accedere al sito dell’Inps tramite identità digitale. L’Inps si occuperà di redigere le graduatorie, e individuerà a chi erogare la misura sulla base delle risorse disponibili in ciascun territorio di riferimento. Il testo del Decreto stabilisce che «il beneficio sarà erogato in base all’ordine di arrivo della domanda, prioritariamente alle persone con Isee più basso». Come fare richiesta: Entro 30 giorni dalla data di pubblicazione del decreto in Gazzetta Ufficiale, l’Inps e il ministero della Salute comunicheranno attraverso i loro siti web la data da quando sarà possibile presentare le domande di accesso al beneficio e il periodo di tempo, che non sarà inferiore a 60 giorni. Per presentare domanda il beneficiario dovrà accedere al sito dell’Inps tramite identità digitale, lo stesso Istituto poi si occuperà di redigere le graduatorie, distinte per regione e provincia di residenza, e individua a chi erogare la misura sulla base delle risorse disponibili in ciascun territorio di riferimento. Come già anticipato, le risorse ammontano a 10 milioni di euro ma secondo le statistiche potrebbero non bastare, dato che la platea che lo riceverà è di circa 16 mila italiani ma le domande potrebbero essere di più, con il rischio anche il giorno di apertura alle domande si trasformi in un click day. Perciò, il testo stabilisce che «il beneficio sarà erogato in base all’ordine di arrivo della domanda, prioritariamente alle persone con Isee più basso». Come usare il bonus: In una fase successiva, l’Inps comunicherà ai beneficiari il buon fine della richiesta e assegnerà a ciascuno un codice univoco del valore attribuito a scalare. Il periodo di utilizzo è di 180 giorni dalla data di accoglimento della richiesta, poi il codice sarà annullato automaticamente e le risorse non utilizzate saranno riassegnate. Una volta scelto il professionista da cui fruire delle sessioni di psicoterapia, il beneficiario dovrà comunicargli il proprio codice univoco. Sarà il professionista psicoterapeuta, poi, ad accedere alla piattaforma Inps, verificare la disponibilità dell’importo della propria prestazione e indicarne l’ammontare inserendo la data della seduta concordata. Inps comunicherà poi al beneficiario i dati della prenotazione. Una volta avvenuta la prestazione, il professionista emette fattura della prestazione intestata al beneficiario, indicando il codice univoco, e la inserisce nella piattaforma Inps. L’Inps infine, si occuperà di comunicare al beneficiario l’importo utilizzato e la quota residua del bonus. Alcune riflessioni: Non poche ci sembrano le perplessità. Un primo dubbio riguarda la quota stanziata, che potrebbe non essere sufficiente a coprire la domanda e potrebbe scatenare una vera e propria “corsa” al bonus, con conseguente tilt dei canali di accesso alla prenotazione e lentezza nell’erogazione del servizio, con potenziali rischi rispetto ai processi di assegnazione, alla loro tempistica e accuratezza. Una seconda questione riguarda il target di riferimento dei beneficiari: come si farà a individuare “chi” ha una condizione di vulnerabilità e sofferenza psicologica a causa degli esiti della pandemia? E perché distinguere tra un tipo di vulnerabilità e l’altra invece di garantire un servizio maggiormente inclusivo? La cavillosità del processo, poi, rischia di scoraggiare cittadini, ma, soprattutto professionisti, che come spesso accade vengono poco o per nulla aiutati dalla burocrazia italiana e da norme che diventano sempre meno snelle e più intricate: più servizi dovrebbero comportare maggiore funzionalità e invece ci troveremo a: verificare codici univoci, inserire importi, dati personali, attendere erogazione prestazione e trafficare con dati in contemporanea su diversi canali. Chissà quanti inevitabili errori e quanta confusione! Una riflessione poi va fatta anche sulla poca chiarezza che finora si percepisce rispetto alla quota da spendere per “ coprire la spesa relativa a sessioni di psicoterapia”. Cosa significa? Che imporranno un prezzo calmierato? E questo quanto e quanti professionisti scoraggerà, oltre a poter rappresentare una manovra a dir poco coercitiva, per usare un eufemismo. E se, come ci auspichiamo, così non sarà, quali saranno le indicazioni e le complicazioni? Il professionista dovrà emettere una fattura per la quota coperta dal bonus e un’altra per la differenza prevista, per poter raggiungere il proprio onorario? E come inciderà questo sui costi sopportati dal professionista, sul rapporto con il cliente e ancora sull’ancor più complicata trasmissione dei dati? Insomma, aspettavamo tutti, anche noi professionisti, una manovra che garantisse una maggiore accessibilità ai servizi, anche privati, ma tutto quello che ad ora sappiamo del bonus ci sembra ancora molto poco chiaro e cavilloso e, a dirla tutta, ci sembra di dover essere molto meglio informati prima di dare la nostra adesione. Molti professionisti attuano strategie e scelte solidali, valutando con attenzione le esigenze e la condizione di chi fa richiesta di aiuto. Il senso etico della professione e il radicamento ai valori di una professione sanitaria e di aiuto è fortemente sentito nel nostro ordine professionale, così come l’esigenza di essere rispettati come categoria professionale. Speriamo quindi che il bonus, con le sue procedure di attuazione, non ponga un conflitto tra scelta etica e fattibilità del mantenimento di costi e tariffe dignitose e congrue, per  professionisti che erogano servizi complessi e per i quali viene richiesta una formazione professionale e non solo, praticamente continua! Infine, alcune avvertente importanti per tutti: Attenzione ai siti dubbi che possono sembrarvi attendibili e ufficiali!!! Il testo del bonus non è ancora stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale.  Per il momento quindi tutti i documenti che girano sono da considerarsi bozze non ufficiali. Le domande di accesso al beneficio da parte degli utenti, le disponibilità dei professionisti e la finestra di tempo nella quale presentare le domanda, probabilmente, scatteranno solo alla pubblicazione del decreto in Gazzetta Ufficiale, non prima. Al momento nessuna piattaforma ufficiale è ancora pronta!!! Tutti i siti e link che stanno circolando attualmente sono da ritenersi iniziative private e assolutamente non riconducibili in nessun modo né ad INPS né al ministero della salute. Prossimi aggiornamenti ci saranno certamente nei giorni seguenti.   Dott.ssa Maria Marino Studio Napoletano Psicologia Cognitiva

21 marzo 2022

“Effetto spettatore”: la deresponsabilizzazione ad aiutare in casi di...

Dott.ssa   Anna Sicolo - Studio Napoletano Psicologia Cognitiva “Effetto spettatore”: la deresponsabilizzazione ad aiutare in casi di emergenza Cosa accade in questi giorni? Con gli ultimi drammatici avvenimenti, sempre più spesso siamo chiamati a supportare le persone, ad aiutare l’altro che vive il trauma della guerra. Un’emergenza reale e concreta ci fa fare i conti con la disumanità e con una tensione interna tesa ad intervenire, ad aiutare, quasi come ad arrivare all’altro. Sui social, sulle chat, attraverso il passa parola …possiamo direttamente contribuire: si chiede, quindi, alla collettività tutta di diventare un filo rosso, che scorrendo tra territori e social arrivi fin lì per aiutare, prendersi cura di persone sconvolte e colpite da questo orrore. Questa dimensione è fondamentale per ricordarci chi siamo in quanto esseri umani, ci chiarisce l’importanza dei diritti, per anni troppo scontati e rintracciabili quasi solo nei temi scolastici. Tutto questo ci spiazza attraverso una prima immediata reazione di sconcerto e sorpresa e spontaneamente si porta dietro un’idea semplice, quasi ingenua ed magicamente infantile: non c’è altro modo di vivere su questo pianeta, se non in pace, tra miriadi di differenze e tutte con pari diritti.  Troppo lungo però questo sguardo, perché più vicino c’è il tempo. Il tempo che passa e bussa, che lascia bombe e vite interrotte. Posso solo, appunto, dare una mano adesso e tenere stretto quel pensiero magico ed infantile, seminandolo ad ogni passo. Può capitare, però, di sentire questa spinta, di soffrire vedendo questa enorme tragedia ma …non muovermi, non agire e non contribuire. E può capitare di sentirsi in colpa per questo, di disapprovarsi profondamente ma darsi sollievo con delle giustificazioni o pseudo spiegazioni.   E’ interessante a questo proposito, il fenomeno “effetto spettatore” (Darley e Latané,1968): davanti ad una scena drammatica o davanti ad una richiesta d’aiuto, la probabilità che l’individuo intervenga è inversamente proporzionale al numero di individui coinvolti. Più il gruppo è piccolo, più veloce sarà la risposta di aiuto. Le dinamiche dei gruppi hanno, come ben sappiamo, la loro fisiologia e anatomia e sui grandi gruppi la psicologia sociale spiega bene che l’effetto spettatore è dovuto a molte variabili, tra cui il costrutto di diffusione di responsabilità, senso di appartenenza, coesione, comprensione ed elementi culturali. L’effetto spettatore e quindi la deresponsabilizzazione ad aiutare in casi di emergenza, passa anche attraverso lo schermo ed ovviamente il web. I processi di interazione tra individuo, gruppo community e dimensione virtuale sono oggetto di studi molto attuali, che cercano di spiegare e prevederne le evoluzioni. Oggi accade un dramma enorme, l’ennesimo. Per innumerevoli e complessi fattori, oggi abbiamo più possibilità di essere presenti nell’aiuto, molte reti di supporto composte da singoli, istituzioni e associazioni sono nate nel bel mezzo del dramma. La mente, la sua capacità di empatia e riflessione lenta e profonda, ci permette di essere più consapevoli e liberi nelle nostre scelte, ci permette di muoverci su quella sacrosanta spinta psichica ed umana ad aiutare l’altro.  

02 aprile 2020

Giornata mondiale per la consapevolezza sull’autismo nel cinema e in TV:...

Per la giornata mondiale dell’autismo 2020, o giornata mondiale per la consapevolezza sull’autismo, fissata a livello internazionale per incoraggiare gli stati a prendere misure per sensibilizzare riguardo alle problematiche e alla realtà vissuta dalle persone con autismo, sono molte le iniziative del mondo dell’intrattenimento. Tra le tante: un corto sulla nuova piattaforma Disney+ che racconta in modo delicato una diversità che diventa invece una meravigliosa caratteristica, un modo diverso di essere speciale; un viaggio alla raccolta di oggetti d’arte donati per un’asta, il cui ricavato serve a creare una realtà artigianale per ragazzi autistici; un cartone animato iniziato da poco su Rai Yoyo: Lampadino e Caramella. Sei minuti al giorno studiati per garantire il massimo dell’esperienza a bambini con alterazioni della sensorialità (molto diffusa nell’autismo). Il cortometraggio Disney Pixar non racconta l’autismo in modo diretto, ma attraverso la progressiva e complessa accettazione di una diversità molto insolita. Rappresentata da una qualità positiva: il potere di volare. Quella di un bambino filippino-americano, la prima volta nella storia della Pixar. Un bambino che, quando si emoziona, si libra, a caccia di petali, mentre gli altri bambini camminano, e mentre il padre tenta di tenerlo lontano da sguardi indiscreti, a volte stupito, a volte preoccupato, a volte contento e a volte arrabbiato. Combattuto se nascondere, anche a sé stesso, questo talento oppure accettare suo figlio com’è. Quindi un percorso metaforico, di comprensione, per molti versi vicino a chi vive l’autismo in famiglia. Scritto e diretto da Bobby Rubio, Float nasce dall’esperienza personale del regista con il figlio autistico, Alex. Dopo il grande successo di “Tommy e gli Altri”, in programmazione su Sky Arte nel 2017, che ha portato alla luce storie di isolamento e le difficoltà di vita e di riconoscimento degli autistici adulti, denunciando le loro condizioni personali, il loro diritto a una vita sociale, e mettendo in luce la loro bellezza, Gianluca Nicoletti è tornato con un nuovo docu-film: “Tommy e l’asta dei Cervelli Ribelli”, con la regia di Massimiliano Sbrolla. In onda oggi su Sky Arte e su Now Tv oggi alle 21.15, proprio nella Giornata mondiale dell’autismo 2020, il docu-film è anche legato al progetto di una raccolta fondi mirata a garantire il “dopo di noi”, per il sostentamento ai soggetti autistici adulti e non autonomi, nell’arco di vita. Dedicato ai bambini autistici, ma non solo, c’è poi  “Lampadino e Caramella”  Il primo cartone pensato per bambini con deficit sensoriali. Un prodotto innovativo per metodologia e rispetto alla vocazione inclusiva, in onda su Rai Yoyo da domenica 29 marzo tutti i giorni alle 16.50. Venti episodi da sei minuti, che narrano le avventure di due simpatici fratellini – Lampadino e Caramella – e dei loro amici animali, incontrati nel MagiRegno degli Zampa, il luogo fantastico a cui i bambini hanno accesso grazie ad una formula magica. Personaggi, forme, colori, parole, musica e ritmo sono costruiti per adattarsi alla diversa sensibilità, e ai diversi livelli di competenza dei bambini tra i 2 e i 6 anni, così da promuovere momenti di condivisione che educhino al rispetto dell’altro, ciascuno con le proprie differenze. Voce narrante e commento sonoro armonizzati al contesto per le parti prive di dialogo (a vantaggio dei bambini ciechi o ipovedenti); sottotitoli con specifica sintassi e traduzione simultanea nella Lingua Italiana dei Segni (LIS), con attori in costume che recitano in live-action inseriti in un fumetto (a vantaggio di bambini sordi); forme, grafica e colori che rispettano criteri di percezione per la riduzione del livello di ansia e l’attivazione delle aree del cervello legate al piacere; effetti sonori e musiche non invasivi o fastidiosi per qualsiasi spettatore (a vantaggio dei bambini autistici). Per ulteriori informazioni e contenuti: https://zon.it Il disegno, scelto come immagine di questo contributo, è frutto del lavoro e dell’impegno di una insegnante del territorio campano, che da anni accompagna con passione e competenza, i suoi bambini speciali, aiutandoli a crescere. Grazie a lei e a tutti quelli che, con garbo, discrezione, passione e competenza, cambiano a poco a poco, ogni giorno, la vita di questi bambini, prima di tutto amandoli per ciò che sono.

23 febbraio 2020

Dopo il DSM 5: che fine ha fatto la sindrome di Asperger?

In questo breve contributo cercheremo di spiegare come orientarsi, dopo la pubblicazione del manuale diagnostico  DSM – 5, per identificare la sindrome di Asperger – cioè quella condizione dello spettro dell’autismo che si colloca al suo estremo più lieve -  e comprendere come definirla e “trovarla” all’interno dei nuovi criteri diagnostici per l’Autismo. Si, perché, con la pubblicazione nel 2013 del nuovo “Manuale statistico e diagnostico delle malattie Mentali, DSM 5”, la sindrome di Asperger è stata eliminata come categoria diagnostica: non c’è più. E le migliaia di bambini, ragazzi e adulti a cui è stata diagnosticata come potranno orientarsi? Forse l’Asperger non esiste più? Non esistono più le sue manifestazioni, le caratteristiche specifiche? No, certo che no. La sindrome di Asperger non esiste più come “codice diagnostico”, come etichetta, ma questo non vuol dire che, in realtà, le manifestazioni e i comportamenti che avevamo imparato a conoscere e definire come “sindrome di Asperger”, non esistano più. Dobbiamo però capire come orientarci, per non fare confusione. Facciamo una piccola premessa. Per identificare e definire le caratteristiche psicologiche e comportamentali presentate da una determinata persona, distinguendole da manifestazioni diverse e individuandone le caratteristiche comuni ad altre condizioni, facciamo riferimento al concetto di “diagnosi”. La diagnosi ci consente di definire una condizione e distinguerla, sulla base dell’identificazione di caratteristiche specifiche. In medicina, e nel lavoro del neuropsichiatra infantile in particolare, la diagnosi si basa sull’osservazione e la valutazione di segni e sintomi (manifestazioni e comportamenti) specificamente associati a una condizione. La diagnosi segue un processo rigoroso e scientifico, basato su linee guida redatte a livello nazionale e internazionale e segue regole condivise, in modo da essere sicuri di seguire tutti le stesse norme e gli stessi criteri di valutazione! Questo è importantissimo, per diversi motivi, come effettuare una diagnosi accurata, stabilire i trattamenti più efficaci e capire il livello di servizi assistenziali a cui si ha diritto! Anche per questo, esistono dei testi di riferimento per formulare e informarsi sulla diagnosi dei disturbi dello sviluppo. Uno dei manuali di riferimento più influenti e più utilizzati a livello internazionale in questo ambito è il DSM (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali). Ci riferiamo a questo manuale, insieme ad altri, anche per la diagnosi di Autismo. Prima, L’Autismo era identificato come un disturbo pervasivo dello sviluppo e la sindrome di Asperger veniva identificata come una particolare e specifica forma di Autismo. Cioè, aprendo il manuale, avrei trovato la sezione dei Disturbi Pervasivi dello Sviluppo e poi le varie categorie specifiche, tra le quali la sindrome di Asperger. Adesso, con il nuovo DSM – 5 questa suddivisione non esiste più.  Esiste una sola unica grande categoria, definita “Disturbi dello Spettro dell’Autismo”, che ingloba e comprende tutte le forme di autismo prima distinte. Ma perché??? Il principio è che l’autismo è costituito da caratteristiche che si distribuiscono nella popolazione con diversi gradi di intensità, su una linea continua. I sintomi centrali dell’Autismo sono distribuiti nella popolazione generale in maniera continua, più che secondo una distribuzione che distingue inequivocabilmente e qualitativamente gli «affetti» dai «non affetti» (cioè la vecchia distribuzione per categorie diagnostiche) E’ per questo è stato coniato e viene oggi utilizzato il costrutto di «Spettro Autistico», proprio per designare e spiegare questa continuità dimensionale piuttosto che una suddivisione tra categorie. Tornando al punto di partenza, anche se l’espressione “sindrome di Asperger” resta in utilizzo nella pratica clinica e nel linguaggio comune, con il DSM 5, questa definizione è sostituita con la nuova categoria: disturbo dello spettro autistico di livello 1, senza compromissione intellettiva e del linguaggio associata. Questa definizione, certo un po’ più lunga e  molto meno immediata, consente di utilizzare un’unica categoria, in modo da cogliere gli elementi comuni, ma identificando degli specificatori, per preservare la possibilità di identificare la unicità di ogni soggetto. Questa scelta, tuttora molto controversa in ambito specialistico ma anche tra i membri della comunità Asperger, nel panorama italiano è importante anche per un altro risvolto, quello del diritto all’assistenza. Con l’introduzione del DSM – 5, infatti, ora si usa per tutte le persone nello spettro autistico, e quindi anche per gli Asperger, il codice diagnostico F84.0, prima utilizzato “solo” per l’autismo classico. Questo passaggio, potrebbe facilitare l’accesso ai servizi anche per persone, come gli Asperger per le quali l’apparente assenza di difficoltà era prima più spesso fonte di mancato accesso ai livelli minimi di assistenza in diversi ambiti. Abbiamo percorso una strada forse un po' tortuosa ma spero utile. Adesso, solo una piccola riflessione, per chiudere… Il termine sindrome di Asperger continuerà senz’altro ad essere usato nella pratica clinica e nel dire comune, benché è indubbio che si debba adeguare il linguaggio ai nuovi criteri diagnostici, per accuratezza scientifica, per buona pratica clinica e per adottare un codice condiviso a livello ufficiale. La comunità Asperger, bambini, adolescenti, adulti e famiglie, continuano a identificarsi con questo termine e con la cultura e la comunità che si è formata intorno ad esso e grazie ad esso. Hans Asperger, benché ora si trovi in una bufera mediatica di dubbia fondatezza, ha avuto il pregio e la grazia di saper guardare e descrivere le caratteristiche di ragazzi e ragazze speciali. Noi siamo ben lontani da aver il potere di riuscire a definire l’essenza di una persona, e d’altronde, non sarebbe in alcun modo giusto. D’altra parte, la conoscenza è in evoluzione, e i termini che utilizziamo cambiano per cercare di adattarsi a questo processo nel modo migliore possibile… Grazie a tutti i bambini, ragazzi e adulti che ci insegnano a imparare a «guardare»  Dott.ssa Maria Marino, Studio Napoletano di Psicologia Cognitiva - SNPC  Se siete interessati a saperne di più e a informavi sugli ultimi aggiornamenti sulla sindrome di Asperger, potete consultare il bellissimo e completo libro scritto dal Dr. Tony Attwood, “Guida completa alla sindrome di Asperger”, a cura di Davide Moscone 2019, edizioni EDRA.

07 ottobre 2018

Sindrome di Asperger e Depressione in adolescenza e in età adulta. Nuovi...

Gli adolescenti e gli adulti con la sindrome di Asperger sono particolarmente vulnerabili allo sviluppo della depressione. Numerosi studi, tra i quali uno studio pubblicato sul Journal of Autism and Developmental Disorder nel 2016, indicano che almeno un adolescente su tre e due adulti su tre, con la sindrome di Asperger, hanno almeno un episodio di depressione grave nell’arco di vita. Gli stessi studi evidenziano come, durante la giovinezza e l’età adulta, le ragioni che portano alla depressione nella sindrome di Asperger possano intensificarsi, data anche la maggiore richiesta dell’ambiente e le crescenti difficoltà di adattamento legate ad alcune manifestazioni della sindrome. Inoltre, lo stesso ambiente diventa spesso sempre più invalidante e poco accogliente rispetto alle esigenze e alle peculiarità dello stile cognitivo e comportamentale delle persone che vivono condizioni, anche lievi, all’interno dello spettro dell’autismo. La sindrome di Asperger è una forma lieve e sfumata di Autismo. Le caratteristiche sfumate di autismo sono molto diffuse nella popolazione generale e spesso quadri di autismo lieve possono anche non essere riconosciuti, portando conseguenze negative sulle possibilità di sviluppo e sulla qualità di vita di soggetti, che, se adeguatamente seguiti e informati, potrebbero condurre una vita realizzata, appagante e più accogliente rispetto ai propri bisogni. D’altra parte, le forme sfumate di autismo causano difficoltà e sofferenza significativa e soggettivamente percepita e, anche per questo, sono molto diffuse le comorbidità, cioè i disturbi associati. Tra questi, l’ansia e la depressione sono certamente tra i più presenti. E’ per questo che, se da un lato è importante un’attenta e accurata diagnosi, che possa informare e illuminare le persone e i loro familiari su condizioni spesso misconosciute, dall’altro negli ultimi anni si è data sempre maggiore attenzione allo sviluppo di strategie terapeutiche adeguate e specifiche per la psicoterapia della sindrome di Asperger e delle condizioni psicopatologiche associate. In particolare, anche sulla base delle evidenze scientifiche, che indicano la terapia cognitivo – comportamentale come il trattamento elettivo per la depressione (NICE, National Institute for Health and Care Exellence) e per le forme di autismo lieve che presentano comorbidità con disturbi di ansia e dell’umore (linee guida nazionali e internazionali per gli interventi basati sull’evidenza), in anni molto recenti sono stati sviluppati protocolli di psicoterapia cognitivo comportamentali adattati per la cura della depressione nella sindrome di Asperger. Questi protocolli - sviluppati da esponenti di rilievo nello studio, nello sviluppo di tecniche di intervento e nella psicoterapia per l’autismo lieve, primi fra tutti Tony Attwood e Michelle Garnett - ormai manualizzati (2016), rappresentano preziose risorse di intervento e supporto in questo ambito complesso e delicato.

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